Penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di cortile dei gentili dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto».
In dialogo con i non credenti
L’attenzione della Chiesa cattolica al dialogo con i non credenti accompagna da sempre il suo impegno missionario e il suo stesso cammino per la comprensione della sua identità. Di fatti, guardando alla grande profezia del Concilio ecumenico Vaticano II, viene da chiedersi: “Chi sei tu, o Chiesa di Cristo?”. Questa domanda è portatrice di un altro interrogativo che riguarda il dialogo con il mondo, i popoli, le altre fedi e i non credenti: “Quale il ruolo della Chiesa nel mondo?”. Paolo VI affermò coraggiosamente, nell’enciclica Ecclesiam suam che la Chiesa “si fa colloquio”, non solo con Dio, ma anzitutto con se stessa e poi con il mondo, per ascoltare le attese e le speranze dell’uomo moderno. Si comprende, allora, che il dialogo (ad intra e ad extra) diventa, per la Chiesa, lo spazio della missione e della reciproca comprensione nel rapporto fede-ragione. Siamo tutti speranzosi per il buon esito della struttura permanente vaticana voluta da Benedetto XVI e denominata Il cortile dei gentili. Si tratta di un forum permanente per promuovere il dialogo con i non credenti. In realtà, questa disponibilità al dialogo e il confronto con chi non crede accompagnano da sempre il percorso della Chiesa. Infatti, già nel II secolo d.C., alcuni autori cristiani antichi, tra cui molti Padri della Chiesa, si sono impegnati a riconoscere i semi della presenza del Verbo di Dio nelle altre culture e filosofie. È il caso del martire Giustino o anche di Clemente d’Alessandria e di Ireneo di Lione. La presenza misteriosa di Cristo e dell’azione dello Spirito Santo nei non credenti si rivela soprattutto nell’agire secondo coscienza e nella pratica della giustizia e della carità.
La fede come pellegrinaggio e incontro
Tuttavia, c’è da superare un luogo comune: non possiamo definire gli altri per via di negazione; cioè, appunto, come “non credenti”.
La vera distinzione da fare, come diceva il cardinale Carlo Maria Martini, non è tra credenti e non credenti, bensì tra cercatori e non cercatori: tra coloro che ogni giorno si sforzano di pensare e di incontrare Dio, d’incappare nel suo mistero e di farne esperienza, e coloro che, invece, per diversi motivi, hanno smesso di cercare e di confrontarsi con il grande mistero dell’Assoluto. Appare significativa questa definizione: “Il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di credere”. Ciò significa che la fede – se pur cor-dare, cioè dare il cuore a Qualcuno, abbandonandosi a lui (in questo caso al Dio-Trinità) – è sempre un cammino, un rischio, un itinerario che ci spinge a uscire da noi stessi e a mettere in discussione ogni nostra falsa sicurezza. Chi crede in Dio sa che deve uscire da se stesso e vivere la grande avventura del pellegrinaggio.
Di questo cammino – e di questa fede come uscita da sé – è simbolo Abramo, nostro padre nella fede che visse l’avventura di un esodo senza ritorno. In questa prospettiva, la fede non è solo una certezza – nel senso del termine ebraico amen (ciò che dà stabilità, fondamento, certezza o rende saldi o stabili) – ma anche e soprattutto un rischio perché è una scommessa e mette in canto il pericolo di donare la vita, quindi si fa carico del paradosso della croce, del dono di sé.
Il credente è uno che cerca continuamente Dio e, come Giacobbe, al guado dello Jabbok, lotta con il Mistero che si rivela e si nasconde, senza possederlo.
Il credente è un ateo che non ha rinunciato a pensare, a lottare, a cercare, a desiderare, bensì si è consegnato nelle mani di Dio senza averlo mai visto, pur essendo incappato nel suo sguardo e avendo provato il suo amore.
In tal senso, la fede è anche un avvento senza rimpianto: è riconoscere l’impossibile possibilità di Dio e consegnarsi al suo modo paradossale di farsi sentire e vedere, di possederci, di rivelarsi. La fede, allora, non è in contrasto con la ragione: non mortifica la nostra conoscenza, anzi, amplifica il nostro potere conoscitivo.
Con il dono della fede abbiamo la possibilità di passare dal piano della superficie a quello della profondità sia in ambito conoscitivo che relazionale.
La fede colora le nostre giornate e riempie di significato anche il nostro dolore, come altresì ogni nostro rapporto con gli altri.
La via della bellezza
Ultimamente, nel dialogo con coloro che hanno smesso di cercare, si è seguito il percorso dell’arte o della bellezza (la via pulchritudinis) come itinerario di confronto tra fede e ragione.
A Barcellona, il Pontificio Consiglio della Cultura ha organizzato un incontro su Arte, bellezza e trascendenza, proprio all’interno delle iniziative del Cortile dei gentili. La bellezza della naturalezza, la bellezza dell’arte e la bellezza della musica sono già una manifestazione, una rivelazione della bellezza di Dio.
Ma nella prospettiva dei laici, dei non credenti, la bellezza è soprattutto una chiamata alla trascendenza, al mistero, alla riflessione; è come un simbolo che fa pensare a cosa siamo, qual è il senso della vita, qual è il nostro ultimo fondamento. Questo non significa che si arriva direttamente a Dio, ma che anche i non credenti possono vedere nella bellezza una via che porta al mistero, quanto meno al mistero del mondo.
Cambiare i nostri linguaggi
Per fare ciò, il linguaggio che devono parlare oggi i credenti, per incontrare chi non crede, deve essere chiaro, immediato, esperienziale, esistenziale e non tecnico, per poter raggiungere veramente tutti. Il linguaggio ecclesiale è soprattutto per esperti ed è fatto di concetti non sempre decifrabili.
È necessario riprendere l’uso di simboli, metafore, segni, come anche il discorso sapienziale che parte dal vissuto.
Occorre raccontare la propria esperienza di fede senza pretendere che l’altro ci assecondi né confrontarsi con tono apologetico affinché l’altro si arrendi alla nostra Verità. Dobbiamo convincerci, sempre di più, che noi non siamo la Verità, bensì testimoni della Verità. Siamo posseduti da Cristo che è la forma storica che l’Amore si è dato nel tempo. Ciò ci permetterà di parlare e di relazionarci con maggiore umiltà per essere veramente credibili.
Il cortile dei “gentili
Non è uno spazio riservato a persone cortesi e garbate, ma uno luogo per quanti non conoscono Dio.
Penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di cortile dei gentili dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa.
Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto».
Queste parole, indirizzate da Benedetto XVI alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi del 2009, hanno prodotto anche un effetto concreto: un dicastero vaticano, il Pontificio Consiglio della Cultura, ha dato il via a un’istituzione, denominata Cortile dei gentili, per aprire un dialogo serio e rispettoso tra credenti e agnostici o atei.
Il simbolo usato dal Papa, una locuzione non a tutti perspicua, anche se a molti è noto che il vocabolo gentili designa nel linguaggio ecclesiastico i non-ebrei, ossia i pagani che si erano accostati al cristianesimo: il termine deriva dal latino gens nel senso di “nazionalità straniera” in opposizione al populus Romanus.
Per comprendere la realtà del “Cortile dei gentili” – per certi versi simile al nostro “sagrato” aperto a tutti, anche ai non credenti – dobbiamo riferirci alla planimetria del tempio di Gerusalemme, soprattutto nella tipologia offerta dall’imponente edificio voluto dal re Erode a partire dal 20 a.C. e distrutto nel 70 d.C. dalle armate romane di Tito. Là, infatti, oltre alle aree riservate alle donne, agli Israeliti, ai sacerdoti e al santuario propriamente detto, si apriva uno spazio al quale potevano accedere i pagani in visita a Gerusalemme.
Secondo il profeta Isaia, il tempio doveva essere un luogo di preghiera per tutti i popoli (“Il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli”). Isaia annuncia il Dio vero ed unico (“Io sono il primo e io l’ultimo, fuori di me non vi sono altri dei”) non idoli fabbricati dagli uomini creati apposta per rassicurare dalle paure (“Chi fabbrica un Dio o fonde un idolo senza cercarne vantaggi?”).
Il Cortile dei Gentili era lo spazio del tempio ove avevano accesso tutti i popoli, e non solo gli Israeliti, per pregare il Dio a loro ancora sconosciuto anche se non potevano accedere all’interno del tempio e celebrare quindi pienamente il mistero come facevano invece i circoncisi, gli appartenenti al popolo eletto. Come racconta il Vangelo, Gesù aveva cacciato proprio da là i cambiavalute e i venditori di colombe, rovesciandone i tavoli.
La prova concreta dell’esistenza di questo recinto speciale – largo 300 metri e lungo 475 – è in una lapide di 60×90 cm con un’iscrizione greca, scoperta nel 1871 dall’archeologo francese Charles Simon Clermont-Ganneau e ora conservata al Museo Archeologico di Istanbul (un’altra targa simile, ma solo frammentaria, è stata rinvenuta nel 1953).
In essa si legge un divieto analogo alle segnalazioni attuali con l’avviso di “pericolo di morte” o di “zona militare” invalicabile: “Nessuno straniero (alloghenés) penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda l’area sacra (hierón). Chi venisse sorpreso [in flagrante] sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà.”
È curioso notare che, a quanto si evince dal dettato del divieto, la pena capitale era automatica, senza regolare processo ma con una sorta di linciaggio affidato alla folla ebraica.
Qualcosa del genere è evocato in connessione col rischio corso da san Paolo proprio nel tempio di Gerusalemme: la massa dei fedeli tenta di ucciderlo perché sospettato di “aver introdotto Greci nel tempio, profanando il luogo santo”.
I “gentili” di oggi
Oggi i Gentili sono coloro per i quali “la religione è una cosa estranea” eppure non vogliono rimanere semplicemente senza Dio, mentre sono stanchi e forse nauseati dagli dèi che l’irreligiosità ha posto (o imposto) loro davanti.
Considero importante soprattutto il fatto che anche le persone che si ritengono agnostiche o atee, devono stare a cuore a noi come credenti» (Benedetto XVI, alla Curia del dicembre 2009). La questione di Dio infatti «rimane presente pure per loro, anche se non possono credere al carattere concreto della sua attenzione per noi…
Come primo passo dell’evangelizzazione dobbiamo cercare di tenere desta tale ricerca; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde». A quei tempi i Gentili erano i ”popoli” diversi da Israele, in seguito divennero i popoli che non avevano ancora conosciuto il cristianesimo. E oggi? Sono coloro, dice il Papa, scontenti dei loro déi, riti e miti perché si rendono conto che da essi non può derivare nessuna vera salvezza in quanto produzione di mani d’uomo. Anche se essi non lo conoscono, sono in attesa del Dio unico, vero e grande, il Dio che è verità e amore e desiderano pregarlo. Sono quelle persone che sentono come l’irreligiosità del nostro tempo ha condotto a nuovi miti in apparenza liberatori ma non veramente liberanti. Essi non conoscono il vero Dio, però se trovassero un aggancio vi si appiglierebbero.
Oggi i Gentili sono coloro per i quali “la religione è una cosa estranea” eppure non vogliono rimanere semplicemente senza Dio, mentre sono stanchi e forse nauseati dagli dèi che l’irreligiosità ha posto (o imposto) loro davanti. Nella lectio magistralis alla Facoltà di Architettura (Porte aperte tra il tempio e la piazza) Ravasi ha ripreso le parole del laico russo ortodosso, vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov (1901-1970), il quale dichiarava che «tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell’incenso, i canti, le preghiere dei fedeli… si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell’infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l’aula sacra e la piazza ove si svolge l’attività umana. Si ritrova, così, l’ anima autentica e profonda dell’Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto». di E. Scognamiglio