Noi francescani, con l’elezione di Papa Francesco a successore di Pietro e in questo momento storico della Chiesa, non possiamo rimanere insensibili dinanzi alla svolta ecclesiale che ci interpella. Per tutte le realtà francescane è una grande responsabilità condividere nell’unico nome, Francesco d’Assisi e Papa Francesco, il cammino e il carisma del nostro Fondatore e la sua fedeltà al “signor Papa”.
Dopo 8 secoli di francescanesimo vissuto nelle sue multiformi espressioni, il nome assunto da Papa Bergoglio interroga specialmente oggi la nostra sequela e la nostra coerenza, memori del “Va e ripara…” sempre attuale e impegnativo.
Riparare la Chiesa significa accogliere l’invito del Papa ad “uscire dalle proprie comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo” (EG 20) e non chiuderci in noi stessi, dentro le nostre sacrestie e i nostri conventi, “abitare la strada” e aprire le porte alla missionarietà intesa nelle svariate accezioni della nuova evangelizzazione.
Nella recente Assemblea dei Ministri Provinciali Francescani d’Italia, il P. Giacomo Bini, ex Ministro Generale OFM, nella sua conferenza così ha sintetizzato la grande passione missionaria di Papa Francesco:
Egli “sogna una Chiesa missionaria”, una “Chiesa in uscita”, incamminata verso le “periferie”, i “luoghi di frattura”. “E’ vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni, e senza paura” EG 23). Si insiste continuamente sull’ “uscire”, sulla “cultura dell’incontro”, sulla cultura missionaria, in opposizione alla staticità istituzionale, al “sempre fatto”, alla cultura dell’isolamento, del ripiegamento su se stessi. Egli dice: “Il cambiamento delle strutture ecclesiali (da caduche a nuove) non è un
frutto dell’organizzazione dell’impianto funzionale ecclesiastico, da cui risulterebbe una riorganizzazione statica, bensì è conseguenza della dinamica della missione”(Al CELAM). E ancora ai superiori generali ripete: “Oggi Dio ci chiede di uscire dal nido che ci contiene per essere inviati”. Nella Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” scrive: “La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria”(EG 21). E ancora: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”(EG 49). E aggiunge: “(La missione) è qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra e per questo mi trovo in questo mondo”(EG 273).
Il Papa vede bene che ogni vocazione comporta una missione: senza di questa ne va di mezzo la nostra identità! Perché questa paura ad uscire?
Siamo stati sempre i “religiosi del popolo”, i predicatori popolari, disponibili a tutti: perché non continuare la nostra tradizione dell’andare in mezzo alla gente, credenti e non credenti, di aprire nuove strade, nuovi ministeri apostolici, nuove missioni?
Il papa è molto chiaro: “Non possiamo restare chiusi nella parrocchia, nelle nostre comunità, nella nostra istituzione parrocchiale o diocesana, quando tante persone sono in attesa del Vangelo…Non si tratta solamente di aprire la porta perché vengano, per accogliere, ma è uscire dalla porta per cercare e incontrare…Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve, tenendo le porte aperte, cerchiamo di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se ne è andato o è indifferente, ma ci vuole audacia e coraggio” (ai Superiori generali).