Massimiliano Maria Kolbe nasce nel 1894 a Zdunska-Wola, in Polonia. Entra nell’ordine dei francescani e, mentre l’Europa si avvia a un secondo conflitto mondiale, svolge un intenso apostolato missionario in Europa e in Asia. Ammalato di tubercolosi, Kolbe dà vita al «Cavaliere dell’Immacolata», periodico che raggiunge in una decina d’anni una tiratura di milioni di copie. Nel 1941 è deportato ad Auschwitz. Qui è destinato ai lavori più umilianti, come il trasporto dei cadaveri al crematorio. Nel campo di sterminio Kolbe offre la sua vita di sacerdote in cambio di quella di un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. Muore pronunciando «Ave Maria». Sono le sue ultime parole, è il 14 agosto 1941. Giovanni Paolo II lo ha chiamato «patrono del nostro difficile secolo». La sua figura si pone al crocevia dei problemi emergenti del nostro tempo: la fame, la pace tra i popoli, la riconciliazione, il bisogno di dare senso alla vita e alla morte. (Avvenire)
Se non è il primo è senz’altro fra i primi ad essere stato beatificato e poi canonizzato fra le vittime dei campi di concentramento tedeschi. Il papa Giovanni Paolo II ha detto di lui, che con il suo martirio egli ha riportato “la vittoria mediante l’amore e la fede, in un luogo costruito per la negazione della fede in Dio e nell’uomo”.
Il 19 settembre 1939, i tedeschi prelevarono padre Kolbe e gli altri frati, portandoli in un campo di concentramento, da dove furono inaspettatamente liberati l’8 dicembre; ritornati a Niepokalanow, ripresero la loro attività di assistenza per circa 3500 rifugiati di cui 1500 erano ebrei, ma durò solo qualche mese, poi i rifugiati furono dispersi o catturati e lo stesso Kolbe, dopo un rifiuto di prendere la cittadinanza tedesca per salvarsi, visto l’origine del suo cognome, il 17 febbraio 1941 insieme a quattro frati, venne imprigionato.
Dopo aver subito maltrattamenti dalle guardie del carcere, indossò un abito civile, perché il saio francescano li adirava moltissimo. Il 28 maggio fu trasferito ad Auschwitz, tristemente famoso come campo di sterminio, i suoi quattro confratelli l’avevano preceduto un mese prima; fu messo insieme agli ebrei perché sacerdote, con il numero 16670 e addetto ai lavori più umilianti come il trasporto dei cadaveri al crematorio.
La sua dignità di sacerdote e uomo retto primeggiava fra i prigionieri, un testimone disse: “Kolbe era un principe in mezzo a noi”. Alla fine di luglio fu trasferito al Blocco 14, dove i prigionieri erano addetti alla mietitura nei campi; uno di loro riuscì a fuggire e secondo l’inesorabile legge del campo, dieci prigionieri vennero destinati al bunker della morte. Padre Kolbe si offrì in cambio di uno dei prescelti, un padre di famiglia, suo compagno di prigionia.
La disperazione che s’impadronì di quei poveri disgraziati, venne attenuata e trasformata in preghiera comune, guidata da padre Kolbe e un po’ alla volta essi si rassegnarono alla loro sorte; morirono man mano e le loro voci oranti si ridussero ad un sussurro; dopo 14 giorni non tutti erano morti, rimanevano solo quattro ancora in vita, fra cui padre Massimiliano, allora le SS decisero, che giacché la cosa andava troppo per le lunghe, di abbreviare la loro fine con una iniezione di acido fenico; il francescano martire volontario, tese il braccio dicendo “Ave Maria”, furono le sue ultime parole, era il 14 agosto 1941.
Le sue ceneri si mescolarono insieme a quelle di tanti altri condannati, nel forno crematorio; così finiva la vita terrena di una delle più belle figure del francescanesimo della Chiesa polacca. Il suo fulgido martirio gli ha aperto la strada della beatificazione, avvenuta il 17 ottobre 1971 con papa Paolo VI e poi è stato canonizzato il 10 ottobre 1982 da papa Giovanni Paolo II, suo concittadino.
“Vado a servire l’immacolata in un altro campo di lavoro”
il 17 febbraio 1941 viene arrestato per la seconda volta. Dice: “Vado a servire l’immacolata in un altro campo di lavoro”.
Il nuovo campo di lavoro è quello di Auschwitz. Tutta l’energia di questo uomo fisicamente fragilissimo (malato di tisi, con un solo polmone) è ora messa a confronto con la sofferenza più atroce. Una sofferenza che lo colpisce sistematicamente, come gli altri e più degli altri, perché appartiene al gruppo dei preti, quello che per odio e maltrattamenti è accomunato agli ebrei.
Diventa il n. 16670. Comincia tirando carri di ghiaia e di sassi per la costruzione di un muro del crematorio: un carro che doveva essere tirato sempre correndo. Ogni dieci metri una guardia con un bastone garantisce la persistenza del ritmo. Poi a tagliare e trasportare tronchi d’albero. A lui, perché prete, toccava un peso due o tre volte superiore a quello dei suoi compagni. Lo vedono sanguinare e barcollare. Non vuole che gli altri si espongano per lui. “Non vi esponete a ricevere colpi per me. L’immacolata mi aiuterà, farò da solo”.
Quando lo vogliono portare all’ospedale del campo, se ne ha la forza, indica sempre qualcun altro che, a suo parere, ha più bisogno di lui: “io posso aspettare. Piuttosto quello lì…”.
Quando lo mettono a trasportare cadaveri, spesso orrendamente mutilati, e ad accatastarli per l’incenerimento, lo sentono mormorare pian piano: “Santa Maria prega per noi” e poi: “Et Verbum caro factum est” (Il Verbo si è fatto carne).
Nelle baracche qualcuno la notte striscia verso di lui in preda all’orrore e si sente dire lentamente, pacatamente, come un balsamo: “l’odio non è forza creativa; solo l’amore è forza creativa”.
Oppure parla, dell’immacolata: “Ella è la vera consolatrice degli afflitti. Ascolta tutti, ascolta tutti!”. Gli ammalati lo chiamano: “il nostro piccolo padre”.
Poi venne quel giorno in cui un detenuto del blocco 14 riuscì a Fuggire. Padre Kolbe era stato assegnato a quel blocco solo da pochi giorni. Per tre ore tutti i blocchi vennero tenuti sull’attenti. Alle 9, per la misera cena, le file vengono rotte. Il blocco 14 dovette stare immobile mentre il loro cibo veniva versato in un canale.
Il giorno dopo, il blocco rimase tutto il giorno allineato immobile, sulla piazza: guardati, percossi, digiuni, sotto il sole di luglio: distrutti dalla fame, dal caldo, dall’immobilità, dall’attesa terribile. Chi cadeva veniva gettato in un mucchio ai bordi del campo. Quando gli altri blocchi tornarono dal lavoro si procedette alla decimazione: per un prigioniero fuggito dieci condannati a morte nel bunker della fame. Un condannato al pensiero della moglie e dei figli grida. A un tratto il miracolo. P. Massimiliano esce dalla fila, si offre in cambio di quell’uomo che nemmeno conosce. Lo scambio viene accettato. Il miracolo per intercessione di P. Kolbe, Dio lo compie in quell’istante.
Dobbiamo veramente ricostruire ciò che avvenne. Non molti poterono udire. Ma tutti ricordano un particolare… Kolbe uscì dalla fila e si diresse diritto, “a passo svelto” verso il Lagerfuehrer Fritsch, allibito che un prigioniero osasse tanto.
Per il Lagerfuehrer Fritsch i prigionieri erano solo dei numeri.
P. Kolbe lo costrinse a ricordare che erano uomini, che avevano una identità. “Che cosa vuole questo sporco polacco?”. “Sono un sacerdote cattolico. Sono anziano (aveva 47 anni). Voglio prendere il suo posto perché lui ha moglie e figli”.
La cosa più incredibile, il primo miracolo di Kolbe e attraverso Kolbe fu il fatto che il sacrificio venisse accettato.
Lo scambio, con la sua affermazione di scelta e di libertà e di solidarietà, era tutto ciò contro cui il campo di concentramento era costruito.
Il campo di concentramento doveva essere la dimostrazione che “l’etica della fratellanza umana” era solo vigliaccheria. Che la vera etica era la razza, e le razze inferiori non erano “umane”. Il principio umanitario secondo l’ideologia nazista era una menzogna giudeo-cristiana. Nel campo dì concentramento si dimostrava che l’umano è ciò che di più esterno c’è nell’uomo, una maschera che può essere levata a volontà.
“I campi di concentramento costituivano un frammento del dibattito filosofico definitivo” (Szczepanski).
Che Fritsch accogliesse il sacrificio di Kolbe e soprattutto accogliesse lo scambio (avrebbe dovuto almeno decidere la morte di ambedue) e quindi il valore e l’efficacia del dono, fu qualcosa di incredibile. Era infatti un gesto che dava valore umano al morire, che rendeva il morire non più soggezione alla forza ma offerta volontaria. Per Fritsch o fu un lampo di novità o fu la totale cecità di chi non credeva più che quella gente avesse alcun significato storico. Di fatto non c’era nessuna speranza umana che quel gesto oltrepassasse i confini del campo di concentramento.
Né P. Kolbe poteva umanamente pensare a una qualsiasi eco storica del suo gesto. Ma P. Kolbe riuscì a dimostrare fisicamente che quel campo era un Calvario. E non mi riferisco a una immagine simbolica. Mi riferisco a una Messa.
Da quel giorno, da quella accettazione, il campo possedette un luogo sacro. Nel blocco della morte i condannati vennero gettati nudi, al buio, in attesa di morire per fame. Non venne dato loro più nulla, nemmeno una goccia d’acqua. La lunga agonia era scandita dalle preghiere e dagli inni sacri che P. Kolhe recitava ad alta voce. E dalle celle vicine gli altri condannati gli rispondevano.
“L’eco di quel pregare penetrava attraverso i muri, di giorno in giorno sempre più debole, trasformandosi in sussurro, spegnendosi insieme al respiro umano. Il campo tendeva l’orecchio a quelle preghiere. Ogni giorno la notizia che pregavano ancora faceva il giro delle baracche. L’intorpidito tessuto della solidarietà umana ricominciava a pulsare di vita. La morte che lentamente veniva consumata nei sotterranei del tredicesimo blocco non era la morte di vermi schiacciati nel fango. Era un dramma e rito. Era sacrificio di purificazione” (Szczepanski).
La fama di ciò che avveniva si sparse anche negli altri campi di concentramento. Ogni mattina il bunker della fame veniva ispezionato.
Quando le celle si aprivano quegli infelici piangevano e chiedevano del pane; chi si avvicinava veniva colpito e ributtato violentemente sul cemento.
P. Kolbe non chiedeva nulla non si lamentava, restava in fondo seduto, appoggiato alla parete. Gli stessi soldati lo guardavano con rispetto. Poi i condannati cominciarono a morire; dopo due settimane erano vivi solamente in quattro con P. Kolbe. Per costringerli a morire, il 14 agosto, venne fatta loro una iniezione di acido fenico al braccio sinistro. Era la vigilia di una delle feste mariane che Massimiliano amava di più: l’Assunta, a cui cantava sempre volentieri quella lauda popolare che dice: “Andrò a vederla, un dì!”.
“Quando aprii la porta di ferro, è il suo carceriere che racconta, non viveva più; ma mi si presentava come se fosse vivo. Ancora appoggiato al muro. La faccia era raggiante in modo insolito. Gli occhi largamente aperti e concentrati in un punto. Tutta la figura come in estasi. Non lo dimenticherò mai”.
Giovanni Paolo Il, predicando ad Auschwitz, ha detto:
“In questo luogo che fu costruito per la negazione della fede, della fede in Dio e della fede nell’uomo, e per calpestare radicalmente non soltanto l’amore ma tutti i segni della dignità umana, dell’umanità, quell’uomo (il P. Kolbe) ha riportato la vittoria mediante l’amore e la fede”.
P. Kolbe ha dimostrato, in forza della sua fede, che l’uomo può creare abissi di dolore ma non può evitare che essi siano inabitati dal Crocifisso e dal mistero del Suo amore sofferente, che si riattualizza, che autonomamente e con forza inarrestabile decide di farsi “presene”. Fu soprattutto per questa decisione di Cristo che Fritsch, contro se stesso, dovette “accettare” lo scambio.
Due sono gli insegnamenti che ci restano contemplando il volto di P. Kolbe: uno torna dal suo martirio alla sua vita, l’altro va dalla sua vita al suo martirio.
Nel primo insegnamento P. Kolbe ci dice che rispondere alla disumanità con l’offerta e il sacrificio di sé non è la risposta di chi non sa fare altro, di chi si rassegna e cede all’oppressore, di chi attende tutto dall’al-di-là e perciò può subire.
P. Kolbe ha dato la vita, accettando di morire, dopo che aveva spese tutte le sue energie per la costruzione di un mondo diverso, di un mondo nuovo, di un centuplo quaggiù. Il martirio non fu una fuga devota. Fu la pienezza della sua energia vitale.
Nel secondo insegnamento P. Kolbe ci dice che la stoffa di cui sono fatti i martiri non è quella di chi nella sua vita si è divertito col pluralismo e con l’irenismo ad ogni costo, anche se li chiama “dialogo” ed “ecumenismo”.
Esiste certamente un modo giusto di considerare questi valori (che è il modo della carità, non della perdita di identità), ma tante volte essi sono soltanto usati per preservarsi, per non dovere “dare la vita”.
P. Kolbe definiva la fede con una nettezza impressionante, e con altrettanta decisione la propagandava e la voleva incarnare in tutti gli spazi della vita culturale e sociale; e seppe avere tanta carità da essere il primo “martire della carità”. Proprio con questo titolo, mai utilizzato prima, è stato canonizzato da Giovanni Paolo II
Ma chi, in nome di una pretesa carità cristiana, annacqua la fede e la rende culturalmente inincidente e irrilevante nella storia è sicuro d’avere proprio quella carità che abilita a dare la vita?
Questa è la domanda seria che discrimina tutti gli atteggiamenti dei cristiani e li giudica. La fede e la carità esigono, ambedue, forza e decisione, e crescono assieme con lo stesso coraggio.